Glauco Bonardi ci ha lasciato all'alba del 19 giugno 2010. Era nato a Napoli il 4 dicembre 1938 e si era laureato in Scienze Geologiche nel 1963, iniziando a lavorare nell'Istituto di Geologia come rilevatore della Carta Geologica d'Italia 1:100.000, sotto la guida di Francesco Scarsella. Dal 1969 al 1986 è stato professore incaricato e successivamente professore associato presso la Facoltà di Scienze della stessa università. Nel 1986 ha vinto il concorso a cattedra in Geologia ed ha tenuto, fino al suo collocamento a riposo nel novembre 2009, corsi di Rilevamento geologico, Geologia, Geologia Regionale e Geodinamica.
Nel corso della sua attività è stato membro del Comitato dei Referees di diverse riviste scientifiche, del Consiglio Direttivo della Società Geologica Italiana, del Comitato di Consulenza presso il Servizio Geologico Nazionale per il Progetto di Cartografia Geologica 1:50.000 del territorio nazionale (C.A.R.G.).
Nell'ambito di tale progetto è stato responsabile scientifico per il rilevamento del Foglio 521 Lauria e Direttore di Rilevamento dei Fogli 466-485 Sorrento-Termini e 504 Sala Consilina. Ha partecipato a numerosi congressi nazionali ed internazionali, facendo parte del comitato scientifico ed organizzativo del 68° e del 74° Congresso della Società Geologica Italiana, che hanno avuto per oggetto la geologia dell'arco calabro-peloritano e dell'Appennino meridionale. In occasione del 32° IGC di Firenze è stato leader di un'escursione sull'arco calabro-peloritano, della quale ha curato la stesura della guida, che resta la più completa sintesi pubblicata su tale settore orogenico. E' stato responsabile nazionale e responsabile di sede di diversi progetti di ricerca (Progetti PRIN, Progetto Finalizzato Geodinamica; IGCP 276, CROP, CROP-mare).
L'attività scientifica dei primi anni, fino al 1970, viene completamente assorbita dal rilevamento della Carta Geologica d'Italia 1:100.000, e porta alla pubblicazione di ben 15 tavolette in scala 1:25.000, che coprono aree dell'Appennino meridionale dove affiorano terreni di età e facies differenti (unità lagonegresi, unità di piattaforma carbonatica, Flysch del Cilento, unità sicilidi, unità metamorfiche sud-appenniniche), che lo inducono ad affrontare problematiche molto diverse e complesse. Il suo primo articolo verte su alcune strutture tettoniche particolari dell'area di Lauria, con una raccolta molto accurata di dati di terreno e un'analisi molto approfondita degli stessi, che permetteranno ben 25 anni dopo, con il procedere delle conoscenze, di riconoscere in tali strutture la prima segnalazione in Appennino meridionale di faglie normali a basso angolo. Un altro lavoro riguarda la tettonica sin-sedimentaria nei Monti della Maddalena, per la prima volta proposta in Appennino meridionale. Al di là delle pubblicazioni è stato fondamentale il suo contributo a un dibattito scientifico, molto vivace e di alto livello nell'allora Istituto di Geologia di Napoli, che ha portato alle prime ricostruzioni moderne della geologia dell'Appennino meridionale. In questa sala sono presenti diversi colleghi che possono testimoniarlo.
A partire dal 1970 inizia a svolgere ricerche sull'arco calabro-peloritano, nelle Serre, in Catena Costiera-Sila occidentale e nel settore Aspromonte-Peloritani, portando un contributo fondamentale alla definizione del modello generale dell'arco proposto al Congresso della Società Geologica Italiana del 1976 (Amodio Morelli et al., 1976 e allegata carta geologica), modello che nelle grandi linee si inserisce nel solco tracciato dal lavoro di Haccard, Lorenz & Grandjacquet (1972; Mem. Soc. Geol. It., 11, 309-341). E' in quegli anni che intorno a lui si costruisce un gruppo di giovani allievi, tra i quali il sottoscritto, ai quali Glauco insegna non solo a riconoscere rocce e strutture, ma - cosa ben diversa e ben più importante - come si deve fare ricerca scientifica.
Dopo il congresso si dedica con ancora maggiore impegno allo studio dell'area Serre-Aspromonte-Peloritani, che era stata quella di sua più stretta competenza e della quale vedeva più degli altri la debolezza delle soluzioni proposte e i tanti problemi ancora del tutto aperti. Lo fa come anima di un gruppo di ricerca di cui erano parte Maria Russo, Antonia Messina, Giuseppe Giunta, Roberto Compagnoni e Agostino Zuppetta. Nel giro di alcuni anni queste ricerche portano a rivedere radicalmente le precedenti interpretazioni, con la ricostruzione dell'assetto strutturale dell'Aspromonte e l'evoluzione tettono-metamorfica delle unità della Calabria meridionale. Particolarmente degni di nota sono lo studio del basamento dell'Unità di Stilo, in cui venne identificata una sezione crostale completa a partire dalla parte alta della crosta intermedia, e il riconoscimento e la definizione dei caratteri del metamorfismo alpino nell'Unità dell'Aspromonte. Il risultato più importante è, a mio parere, l'individuazione nell'arco calabro-peloritano di due distinti settori, dall'evoluzione alpina differente, che solo dal Tortoniano superiore costituiranno un unico assieme cinematico, e l'identificazione del limite tra i due settori nella linea di Cardinale-Valle del Mesima, linea tettonica che si rivelerà come il più logico limite tra catena appenninica e catena maghrebide.
A partire dal 1984 l'attività di ricerca di Glauco Bonardi è rivolta soprattutto all'analisi dei rapporti dell'arco calabro-peloritano con la catena appenninica e la catena maghrebide e alla ricostruzione dell'evoluzione di questi settori orogenici. Particolarmente problematiche risultavano le relazioni con l'Appennino meridionale, soprattutto per la presenza di unità ofiolitiche poco studiate, metamorfiche e non, delle quali alcune presenti sia nell'arco calabro sia in Appennino ed altre esclusive dei due settori. In Appennino, poi, era indispensabile capire evoluzione e significato delle unità poste al di sopra delle unità di piattaforma carbonatica, delle quali si conosceva molto poco, genericamente definite come "flysch interni" dai geologi napoletani e Complessi Liguride e Sicilide dalla scuola di Ogniben.
Le ricerche in Cilento, al confine calabro-lucano e in Catena Costiera, hanno portato a riconoscere: a) che nel Flysch del Cilento Auct. erano state conglobate la successione Cretacico-Oligocenica di un'unità oceanica (F. Crete Nere-Santa Venere e Saraceno) e una successione di up-thrust discordante sulla prima, alla base di età langhiana (F. di Pollica, San Mauro e Albidona); b) che anche nel Complesso Liguride Auct. erano distinguibili due unità, entrambe di natura oceanica, l'Unità del Frido e l'Unità Nord-Calabrese, che partono dal Cretacico (Frido) e dalle ofioliti del Giurassico superiore (Unità Nord-Calabrese) e giungono in continuità all'Oligocene superiore (Frido) ed al Miocene inferiore (U. Nord-Calabrese); c) che nel Complesso Sicilide sono presenti un'Unità Sicilide s.s. ed un'Unità Parasicilide, con diversa evoluzione tettono-sedimentaria; d) che l'Unità del Frido non è presente nell'arco calabro-peloritano, e che i terreni ad essa attribuiti in Catena Costiera vanno ascritti in parte all'Unità Lungro-Verbicaro ed in parte alla copertura sedimentaria dell'Unità ofiolitica di Diamante-Terranova; e) che non esistono unità ofiolitiche comuni all'arco calabro-peloritano ed all'Appennino meridionale; f) che nel Mediterraneo centrale doveva essere presente, oltre all'Oceano Ligure-Piemontese, un ramo oceanico collegato all'Oceano Ionico e al Bacino dei Flysch Maghrebidi. Tale ramo si chiude solo nel Burdigaliano, con la formazione del cuneo di accrezione appenninico, sul quale a partire dal Langhiano si deposita in discordanza il Flysch del Cilento; g) che quest'ultima unità permette di datare con molta precisione il momento della chiusura dell'area oceanica e dell'inizio della collisione continentale del settore settentrionale dell'arco calabro con il margine apulo, alla quale seguirà la deformazione di quest'ultimo e la formazione del thrust and fold belt esterno appenninico. Questi risultati, oltre a individuare la crosta oceanica necessaria per spiegare il vulcanismo calco-alcalino oligo-miocenico della Sardegna, portano a ricostruzioni paleogeografiche e paleotettoniche del tutto nuove, che permettono di inquadrare in modo molto più coerente l'evoluzione degli orogeni appenninico e maghrebide.
Le ricerche sul settore Aspromonte-Peloritani e quelle sulle relazioni dell'arco calabro con la catena appenninica e la catena maghrebide trovano una sintesi nel 1993 nella guida del Congresso dell'IGCP 276, nella quale viene fatto il punto sulla struttura dell'arco calabro-peloritano, sulla sua evoluzione alpina e sulla sua collocazione nell'ambito delle catene appenniniche e maghrebide. Purtroppo la guida dell'IGCP 276 è di fatto introvabile, ma le idee di base vengono riproposte nell'articolo del 2001 sul volume della Kluwer, edito da Vai e Martini, nel quale la storia geologica dell'arco viene anche reinterpretata in termini di evoluzione geodinamica ed accrezione di terreni esotici, nonché, con maggiori dettagli, nella guida all'escursione dal confine calabro-lucano alla Linea di Taormina del 32th International Geological Congress (Field Trip P66 Guidebook, Firenze, 2004).
Negli ultimi dieci anni, pubblica contributi importanti, tra i quali ricordo l'articolo sull'età e il significato della F. di Paludi, considerata come tracciante dell'evoluzione appenninica del settore settentrionale dell'arco calabro, e collabora con ricercatori spagnoli, alcuni dei quali presenti a questo convegno, ad un confronto tra l'evoluzione dell'arco calabro e dell'arco di Gibilterra. Le sue conoscenze lo pongono nella posizione di "grande saggio" all'interno di gruppi composti da giovani e meno giovani. Il suo contributo è particolarmente significativo, e in alcuni casi decisivo, in diversi lavori che vertono sull'unità Lungro-Verbicaro, sui depositi triassici tipo Verrucano delle catene del Mediterraneo occidentale, sulla struttura ed evoluzione delle aree esterne dell'Appennino meridionale. Conclude la sua attività, cosa che non gli sarà affatto dispiaciuta, con il rilevamento al 50.000 del Foglio Lauria, un ritorno all'area e ai problemi dai quali era partito all'inizio degli anni '60, e con un ultimo lavoro sull'arco calabro-peloritano, nel quale ritiene doveroso ribadire l'esistenza del metamorfismo alpino nel settore Aspromonte-Peloritani, in risposta ad assurde interpretazioni di chi non solo ignorava del tutto o non era in grado di capire i dati geologici raccolti in quasi 40 anni di ricerca, ma si era anche permesso di definire i suoi lavori "old fashioned".
Ritengo doveroso concludere il discorso sull'attività scientifica di Glauco Bonardi ricordando il ruolo fondamentale da lui svolto nella revisione stratigrafica delle successioni sin- e tardo-orogene dell'arco calabro e dell'Appennino, revisione nella quale ha fermamente creduto, convincendo alcuni biostratigrafi ad impegnarsi in un lavoro estremamente duro, poco redditizio e misconosciuto, senza il quale, però, non sarebbe stato possibile giungere alle attuali conoscenze. In termini molto chiari, se fossimo ancora convinti che la Formazione del Saraceno è di età cretacica, quella di Pollica cretacico-paleocenica e via continuando, non saremmo molto lontani dal lavoro di D'Argenio et alii (1973; Accad. Naz. Lincei, Quad. 183, 49-72), che ha rappresentato la sintesi più avanzata disponibile negli anni '70, ma che nessuno oggi può pensare di proporre come lavoro di riferimento per l'evoluzione dell'Appennino meridionale.
Tutta l'attività scientifica di Glauco Bonardi, carte geologiche e guide a parte, è racchiusa, se non ne ho inavvertitamente dimenticato qualcuno, in 43 lavori in oltre 40 anni di ricerca, pochi se consideriamo la produzione media di un docente universitario. Nei suoi curriculum, poi, era solito elencarne solo una trentina, quelli che riteneva avessero apportato contributi di particolare interesse al miglioramento delle conoscenze. Tutto ciò era frutto di un rigore intellettuale non comune, che si associava a una grande cultura geologica e a un continuo aggiornamento sugli sviluppi più recenti nel campo della geologia. Riteneva che un buon ricercatore dovesse passare ben oltre la metà del suo tempo a tenersi aggiornato, che ogni lavoro necessitasse di una solida base di dati di campagna, che non si dovessero seguire le mode, se non dopo una lunga e attenta verifica, insomma quando non erano più mode. Era necessaria una serrata opera di convincimento per farlo decidere a pubblicare i risultati delle sue ricerche, che sottoponeva ad una critica feroce, quasi fosse un "arciavvocato" di un "arcidiavolo". Per lui le verifiche non erano mai sufficienti e ogni particolare, anche minimo, andava preso in considerazione. Si arrendeva solo dinnanzi all'evidenza che la scienza va avanti per piccoli passi e che alla fine era un dovere pubblicare i risultati delle proprie ricerche, sia per rendere conto di come era stato speso il denaro pubblico sia perché anche altri potessero utilizzarli e giungere a un miglioramento delle conoscenze generali. Detestava il costume di chi "secretava" i risultati delle proprie ricerche nell'assurda convinzione di poter un giorno dire la parola definitiva su certi problemi. In uno dei suoi messaggi più recenti mi aveva mandato una citazione dall'ultimo lavoro di Darwin, che rifletteva bene la sua filosofia di lavoro "The subject may appear an insignificant one, but we shall see that it possesses some interest; and the maxim de minimis non curat lex, does not apply to science" (L'argomento può sembrare insignificante, ma vedremo che riveste qualche interesse, e che la massima "la legge non si occupa di inezie" non si applica alla scienza; Charles Darwin – The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, With Observations on Their Habits. John Murray Editor, pp. 328, London, 1881). Detestava quello che chiamava il "metodo Elle", che considerava non scientifico, che aveva trovato perfettamente descritto nella critica, datata 1928, di Edward W. Berry alla teoria di Wegener sullo spostamento dei continenti: "segue il corso di un'idea iniziale, con una ricerca selettiva sul terreno e nella letteratura di prove a favore, ignorando la maggior parte dei dati in contrasto con l'idea stessa e terminando in uno stato di autoebbrezza in cui l'idea soggettiva giunge ad essere considerata un fatto oggettivo". Ora tale critica è un po' troppo partigiana e svilente dell'opera di Wegener, ma non c'è dubbio che il rischio di applicare il "metodo Elle" lo corriamo un po' tutti e tutti i giorni. In conclusione, era molto difficile essere del tutto d'accordo con Glauco Bonardi nelle discussioni scientifiche, ma tutti amavamo discutere con lui, e tutti gli riconoscevamo un'onestà intellettuale e una disponibilità senza limiti. A conferma di quanto detto vale la pena di ricordare che per alcuni anni ha svolto il ruolo di "contraddittore positivo" dei programmi di ricerca presentati alle istituzioni francesi dal gruppo di Michel Durand Delga e Jean-Pierre Bouillin, un gruppo con il quale aveva rapporti molto cordiali e di reciproca stima, ma del quale non condivideva alcune idee di fondo sull'evoluzione delle catene alpine del Mediterraneo. Il suo ultimo viaggio all'estero è legato proprio alla sua nomina a commissario per l'esame finale di un dottorato in scienze della terra dell'università di Grenoble, tesi di un allievo di Jean-Pierre Bouillin che verteva sull'evoluzione tettono-metamorfica dell'Unità dell'Aspromonte.
La sua onestà intellettuale, al limite dell'esagerazione, lo portava a non attribuirsi mai meriti altrui e a dare il giusto valore agli studi precedenti. Valgano come esempi l'impegno e la costanza posta nel recupero di alcuni importanti, ma contestatissimi, risultati del lavoro di Raimondo Selli in Appennino meridionale, come l'esistenza e i caratteri dell'Unità Nord-calabrese e l'età della Formazione di Albidona. Riguardo all'Unità Nord-calabrese, in particolare, i suoi ripetuti interventi hanno di fatto imposto che si ritornasse all'originaria definizione di Selli, contrastando i tentativi di introduzione di nuove, e non necessarie, denominazioni. Glauco poi aveva grandi capacità nello scrivere: impiegava molto tempo a pensare una frase, ma una volta scritta, era nella versione definitiva. I suoi lavori si rileggono sempre con molta facilità e interesse e sono una vera miniera di spunti, di osservazioni di campagna perfettamente annotate, anche se le conoscenze del momento impedivano di proporne un'interpretazione. Nel lavoro del 1976 sui Peloritani, nella descrizione di alcune facies particolari dell'Unità dell'Aspromonte nell'area intorno a Sant'Angelo di Brolo, si ritrovano tutti i caratteri petrografici e strutturali che porteranno 20 anni dopo a separare dall'Aspromonte le Unità del Mela e di Piraino. Quanto alle sue carte geologiche, di grande dettaglio, si può andare in campagna sicuri di trovare quello che in esse è riportato, il che – senza nessuna polemica - non si può dire di molte carte più recenti. Chiudo la parte relativa all'attività di ricerca di Glauco ricordando un piacevole episodio avvenuto nel 2007 al congresso del Cairo della Tethys Geological Society. Paul Broquet, che fin dagli anni '60 con il gruppo di André Caire ha lavorato sulle Maghrebidi siciliane, e che Glauco non aveva mai incontrato, conclude una sua presentazione sul settore Madonie-Nebrodi consigliando a chi fosse interessato alla geologia dell'arco calabro-peloritano di tralasciare lavori più recenti e new-fashioned e andare a leggere quelli di Glauco Bonardi.
La figura di Glauco Bonardi va ricordata per ben altri meriti oltre quelli scientifici, dei quali non restano tracce evidenti, ma dei quali credo che fosse molto orgoglioso. Chi ha vissuto con lui l'esperienza dell'Istituto di Geologia, e successivamente del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Napoli, ricorderà il suo costante impegno, con una disponibilità che definirei assoluta, nelle attività di gestione della struttura e nell'attività didattica, che non ha mai permesso venissero messe in secondo piano rispetto all'impegno nella ricerca. Ogni sua attività era contraddistinta da un'ironia "appassionatamente disincantata", che tutti ricordiamo come espressione di una consapevolezza delle difficoltà esistenti sul piano pratico, che tuttavia non condizionavano la fiducia nel proprio lavoro e nei suoi risultati. Ricordo il lavoro di aggiornamento e riorganizzazione della biblioteca, in particolare dopo il disastro del terremoto del 1980, lavoro che lo ha impegnato per anni. Si deve a lui se si è salvata la sezione storica, un autentico patrimonio culturale dell'Università di Napoli, nella quale oltre a volumi rari e pregiati di argomento geologico, è presente quella che probabilmente è la più ampia raccolta in Italia di opere, edite nella prima metà del secolo scorso, sull'antropologia e l'esplorazione lato sensu dell'area tibetano-himalayana e sulle filosofie orientali. Quanto al suo impegno nella didattica, e alla qualità della sua didattica, possono esserne testimoni i molti di noi che hanno avuto modo di constatare la sua disponibilità, che definirei assoluta, come docente, i suoi colleghi e, soprattutto, centinaia di ex-studenti, che gli sono stati riconoscenti di quanto aveva loro insegnato, del rispetto nei loro riguardi che traspariva al di là del rigore, e dalla crescita di autostima che ne derivava. Ne sono una chiara dimostrazione i messaggi su facebook e sui vari blog alla notizia della sua scomparsa.
Non posso esimermi in questo ricordo dal far notare che con Glauco Bonardi Napoli ha perso uno dei sempre più rari rappresentanti di quell'intellighentia partenopea che ha dato tanto al nostro Paese. Era un profondo conoscitore della storia e della cultura della sua città, non solo per quanto riguarda il campo delle lettere, delle arti, e ovviamente della scienza, ma anche per quanto attiene alla raffinatezza di un vivere quotidiano che non si è mai arreso alle scorciatoie di una modernità sempre più vissuta all'insegna della fretta. Ostinato avversario della caffettiera Moka, a casa sua era possibile bere l'autentico caffè della "napoletana" e gustando un piatto del suo ragù mai un altro illustre figlio della sua città avrebbe potuto dire "Chist' nun è 'rraù! Chist' è carne 'ca pummarola!" Lascio a chi mi ascolta la trasposizione di questa famosa frase di Eduardo De Filippo sul piano del confronto fra i lavori scientifici di Glauco Bonardi e i tanti lavori che vengono oggi scritti e pubblicati sotto l'urgenza delle nuove regole per la carriera universitaria, così spesso solo apparentemente "meritocratiche".
Mi piace chiudere riportando parte delle bellissime parole, che ho firmato ma non scritto, con le quali è stata annunciata la sua scomparsa sul bollettino della FIST, parole che veramente descrivono in toto il personaggio: Glauco ha fornito contributi fondamentali alla Geologia Regionale dell'Arco Calabro-Peloritano e delle Unità Interne dell'Appennino meridionale, ma soprattutto ha plasmato numerose generazioni di studenti che hanno costantemente riconosciuto di dovere al suo insegnamento la passione per una geologia fatta di osservazioni rigorose sul terreno e di una considerazione scrupolosa delle conoscenze precedenti, al di là di artificiose suddivisioni specialistiche. Di Glauco ci mancheranno soprattutto il rigore scientifico e morale, la ricchezza culturale che gli consentiva di conversare di geologia come di buona cucina, vino e musica, e l'ironia che non lo ha abbandonato nemmeno negli ultimi difficili momenti della sua vita.
Vincenzo Perrone
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